Una ricerca recente condotta in Italia ha dimostrato l’efficacia della presenza di uno psicologo all’interno di un ambulatorio medico .
Infatti 1/4 dei pazienti che si reca dal medico di base soffre di disturbi ansiosi-depressivi che potrebbero essere risolti attraverso un aiuto psicologico o una psicoterapia piuttosto che con un farmaco. La ricerca mostra come lo psicologo inserito nel contesto delle cure di base permetterebbe una riduzione del 20% della spesa sanitaria pubblica.
Nel Regno Unito,ad esempio, l’80% degli ambulatori dei medici di base ha a disposizione un consulente psicologo.
Riportiamo qua uno stralcio dell’articolo pubblicato sul quotidiano “il Fatto” la settimana scorsa:
L’immagine iniziale è tratta dalla copertina del “New Yorker”di questo mese , il disegnatore Chris Ware ha immaginato così una famiglia immersa nella crisi di questi tempi.
Medico e psicologo nello stesso ambulatorio
La prevenzione che nessuno vuole finanziare
Luigi Solano, docente dell’Università La Sapienza di Roma, da dieci anni mette in pratica la sperimentazione. Abbattendo i costi della spesa farmaceutica del 20%. Ma la sua ricerca non trova fondi per andare avanti
Quante volte il vostro medico di base vi ha trattati come “malati immaginari”? Quante volte, uscendo da quell’ambulatorio, avete dovuto comunque fare i conti con ansie, dubbi e paure? La psicosomatica contemporanea, branca di studio a cavallo tra la psicologia e la medicina, si occupa proprio di questo, producendo una vasta gamma di ricerche e sperimentazioni. “Umanizzare” la pratica medica, può voler dire anche mettere fisicamente nella stessa stanza medici di base e psicologi. E’ quello che sta facendo da 10 anni il Professor Luigi Solano, docente di Psicosomatica della facoltà di Psicologia all’Università la Sapienza di Roma, che racconta: “La nostra esperienza ha aiutato molte persone a scoprire che spesso la malattia è strettamente collegata alla particolare situazione che si sta vivendo. E questo può avere un effetto molto più potente di qualsiasi farmaco”.
Cosa vi ha spinto a intraprendere questa esperienza di “copresenza” di medico e psicologo nell’ambulatorio di base?
Bisogna partire da due considerazioni. Da una parte i medici fanno sempre più fatica a occuparsi del paziente in quanto persona, e quindi ad accogliere tutta quella quota di disagio (che ormai è stimata almeno al 50%) che pur presentandosi come somatico, nasconde in realtà tutt’altre origini, che sono di natura psicosociale. Dall’altra bisogna fare i conti con i pregiudizi molto forti che ancora gravano sulla psicologia clinica. Dal medico siamo abituati ad andarci tutti. Ce l’abbiamo da quando nasciamo, e ci viene assegnato gratuitamente. Con l’idea che siamo anche tenuti ad andarci quando stiamo male. Dallo psicologo, invece, c’è l’idea che ci vanno solo alcune persone un po’ particolari. Il risultato è che, parafrasando la famosa battuta di Woody Allen: “Si va dallo psicologo soltanto dopo essere stati a Lourdes”.
Lo studio medico quindi ci è sembrato il luogo elettivo per inserire la figura dello psicologo, con il compito di affiancare il medico e raccogliere la domanda di tutti coloro che si presentano. Questo ci consente di intervenire nelle prime fasi del disagio.
Ci descrive la ricerca vera e propria?
La nostra esperienza è stata condotta all’interno della Scuola di specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università “La Sapienza” di Roma, che dipende dal Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, ed è stata svolta come forma di tirocinio per gli specializzandi. Si tratta di psicologi laureati e abilitati che io supervisiono regolarmente, discutendo tutti i casi. La nostra esperienza va avanti ormai da dieci anni. Hanno partecipato 11 psicologi, sono stati coinvolti 8 studi medici, ciascuno per la durata di 3 anni. Lo psicologo è presente una volta a settimana nello studio medico e vede tutti i pazienti, tranne quelli che fanno esplicita richiesta di essere visitati unicamente dal medico (questa evenienza si è presentata solo 4 volte). Questa impostazione si è dimostrata già sufficiente per produrre dei risultati e degli effetti.
Lo psicologo ascolta quello che la persona dice e interviene nel contesto della visita. In alcuni casi, non frequenti, propone degli incontri a parte (al massimo dieci) durante i quali sviluppa il problema insieme alla persona. In un numero ancora più ridotto di casi si arriva a fare un invio il più possibile corretto a specialisti della salute mentale.
I problemi vengono quindi già “risolti” nel contesto ambulatoriale?
Il nostro scopo non è primariamente quello di curare le persone, ma di dare un senso al sintomo che viene portato, soprattutto se esso è di natura somatica, all’interno del contesto di vita della persona. Questo è nella maggior parte dei casi sufficiente ad arrestare un percorso medico che porta a spese inutili, a un’etichetta di malato, o addirittura – quando la persona non trova ascolto – a una escalation di disturbi sempre più gravi. Il senso primario del nostro lavoro è far sì che la persona esca dallo studio medico non pensando di avere una malattia ma pensando di avere un problema.
Spesso abbiamo sentito il paziente dire: “Da un mese ho delle vertigini, vorrei fare una Tac”. Se questo problema non trova un ascolto adeguato, il medico prescriverà la Tac. Se disgraziatamente questa dovesse rilevare qualche reperto casuale, si rischia di arrivare a sottoporsi a ulteriori e più invasivi esami innescando un circuito perverso che può rivelarsi anche rischioso per il paziente.