Una ri-lettura: Moby Dick e i vissuti umani

Ri-leggere i classici fa sempre un certo effetto: i romanzi ci permettono di addentrarci all’interno di una mente sprofondando nei suoi pensieri ed emozioni, facendoci catturare dall’esperienza vissuta, in gergo  psicoanalitico potremmo definirla una sonda che consente di esplorare “l’infinito e la vaghezza dell’animo umano” . Qualche anno fa ero stato invitato in una classe di scuola di quinta superiore a parlare della professione di psicologo. Non ricordo come ad un certo punto diversi ragazzi mi chiesero  di  indicare in maniera più precisa delle letture da intraprendere e mi venne spontaneo  segnalare  alcuni romanzi : Moby Dick, Guerra e Pace, I fratelli Karamanzov, I demoni, Ulisse, il grande Gatsby,Tenera è la notte..

Più tardi mi è apparso chiaro che  la  risposta fosse determinata dalla mia convinzione personale che ciascuno di questi  libri ha da dire qualcosa sulla differenza che esiste  tra descrivere un’esperienza emotiva ( come spesso fanno i testi scientifici) e viverla .

In particolare Moby Dick che ho ri-letto di recente con la sua metafora del viaggio ci permette di comprendere meglio questo discorso.

“La bellezza non è altro che l’inizio dello spaventoso che noi siamo a malapena in grado di sopportare” scriveva Rilke  e sia Donald Meltzer che Martha Harris scrissero pagine straordinarie sull’”angoscia della bellezza”. L’impatto estetico che ci provoca un sentimento misto di terrore e e fascinazione simile allla sensazione provata dal neonato quando percepisce per la prima volta il  volto della madre.

Moby Dick con la sua mole e il fitto rimando di allusioni, simboli, epifanie  ci provoca inizialmente questo impatto fin dal  suo famoso incipit “chiamatemi  Ismaele”.

Ahab,   Ismaele, la schiera dei capitani e dei ramponieri, di indigeni, di folli , l’intero equipaggio Pequod è espressione del viaggio verso qualcosa di sconosciuto, di misterioso e imprendibile come è il percorso delle vite umane .

Ma il loro tragitto è leggermente  differente ; Ahab è catturato da una voce interiore che lo spinge a cercare fanaticamente la balena bianca , Ahab sente che deve obbedire ad una coazione interna. La balena bianca è per Ahab un “oggetto estetico “, come afferma Cristopher Bollas,  che” lo cattura e lo pone sotto il profondo incantesimo del perturbante “(simile allo stato di innamoramento), ma è anche preso  dalla sua immagine, come Narciso guarda il mare e si perde, c ‘è qualcosa di costrittivo, di obbligato in Ahab che ne fa una figura grandiosa e tragica.

Anche Ismaele si perde prima di imbarcarsi in una nebbia di presagi, chiaroveggenze, codici da decifrare che vanno al di là delle suecapacità cognitive, ma in un momento successivo riesce a trasformare le sue esperienze in parola e quindi a staccarsi dal rapimento estetico  sentendosi più libero.

Ahab ricerca la verità,  qualcosa che lo possa trasformare, in fondo la Balena Bianca  sembra corrispondere alla “O” di Bion, cioè una potenzialità infinita presente in ognuno di noi , ineffabile  non trasferibile in parola. Ma l’errore di Ahab non sta nella sua follia ,  nel suo tentativo di squarciare il velo del reale, ma consiste nell’annullare, cosi come è accecato  dal biancore della Balena, la realtà nella sua trascendenza , di prendere il significato per la lettera ( come ogni “psicotico”) e di cancellare ogni differenza tra significato e segno perdendosi in esso e sprofondando negli abissi..

In questo sta la superbia  e l’arroganza “umana molto umana” di  Ahab, mentre Ismaele si salva  su una bara ( ricordandoci  il  limite e la finitezza di ogni impresa umana), rinunciando all’onnipotenza narcisistica del narratore, sopravvivendo senza grandezza,ma in questo modo  non appare più sopraffatto dal fato  e quindi potrà finalmente cercare e costruirsi un destino personale.

In fondo il viaggio analitico o terapeutico è come imbarcarsi sul Pequod, accettando di sentire le diverse voci interiori che ci compongono, di ricercare qualcosa di  ineffabile in un atmosfera “pacifica e vaga “, come i marinai ci si può permettere di “dissolversi silenziosi nel proprio io”, dentro un  limite che ci accomuna tutti, delineando faticosamente  e gradualmente una propria traettoria  personale.