Un mito dimenticato

Esiste un testo breve che potrebbe rivelarsi un’utile e preziosa lettura per l’estate perché risulta di  notevole importanza per comprendere le dinamiche psicologiche degli individui: questa opera è passata piuttosto inosservata dalla letteratura scientifica tranne che per un intervento di diversi anni fa di André Green, riconosciuto psicoanalista francese, che poneva questo racconto sullo stesso piano del mito edipico e di quello di Babele per la sua rilevanza psicologica nel determinare certi nostri comportamenti e nel muovere il nostro inconscio.

Questo testo è comunemente chiamato “l’epopea di Gilgamesh “( di recente è stata pubblicata anche una riduzione per ragazzi per la casa editrice Giunti) appartiene alla civiltà Sumerica e ha influenzato il racconto della Bibbia soprattutto per la parte concernente la narrazione del diluvio universale e rappresenta la prima traccia scritta di un poema, anteriore persino ai testi omerici, che sia giunta fino a noi.

4000 anni fa Gilgamesh va alla ricerca della conoscenza e del significato della vita: la parte che ci interessa mettere a fuoco è quella riguardante il momento in cui il guerriero incontra un altro personaggio altrettanto valoroso e coraggioso contro cui lotta e con cui successivamente stringe amicizia fraterna, quest’ultimo  diventerà il suo più fidato compagno di battaglia.

Questo personaggio fraterno rappresenta una sorta di rivale antagonista ma anche il suo doppio, cioè un’alter –ego che riflette e mostra a Gilgamesh. parti e aspetti di se stesso . Quando questo compagno  muore , Gilgamesh non accetta questa perdita ed e’ accecato dal dolore,  si ribella così contro le leggi della mortalità e del tempo intraprendendo un viaggio nel mondo delle tenebre,dell’aldilà per riprendere il suo amico. Un percorso , diremmo noi oggi , che diventa gradualmente un processo di elaborazione del lutto per la scomparsa della persona cara.

Questo racconto affascinante pone , come tutte le epopee immortali, molti più interrogativi che risposte, ma ci illumina sui rischi sempre presenti in ogni individuo di essere preda delle proprie ambizioni e della superbia.

Al termine di questa avventura la disperazione di Gilgamesh. non si placa e dopo innumerevoli ostacoli  egli giunge alla fonte del fiume Eufrate dove un re saggio pone l’eroe di fronte all’inevitabilità della morte e della separazione . Le parole  che usa non sono  consolatorie, ma le riportiamo per intero perché sono di una straordinaria potenza nel cogliere le inquietudini esistenziali che, allora come oggi, a migliaia di anni di distanza dai quei lontani antenati, ancora ci attraversano:

<< Nulla permane. Costruiamo forse una casa che duri per sempre, stipuliamo forse contratti che valgano per ogni tempo a venire? Forse che i fratelli si dividono un’eredità per tenerla per sempre, forse che è duratura la stagione delle piene? …Fin dai tempi antichi nulla permane…>>