Giovanni Bollea apparteneva a quella schiera di persone ( come Marcella Balconi) pioniere in un campo fino ad allora inesplorato, la psiche infantile, quando non si era ancora formalizzato in una disciplina.
La fiducia che le istituzioni potessero dal loro interno esercitare costantemente un’autocritica per evitare di trasformarsi da luoghi di cura e di liberazione ad agenti di controllo di un ideale di normalità e di salute, la convinzione che il malessere e il disagio fossero compresi solo considerando il contesto ambientale e che, di conseguenza, ogni aiuto ai bambini e ai ragazzi non dovesse prescindere dalla collaborazione tra i servizi, la scuola, la famiglia ed il territorio erano la bussole che guidavano il pensiero e orientavano le pratiche dei primi esploratori di questo “continente sconosciuto” che e’ la mente infantile.
Per ricordarlo di seguito pubblichiamo alcuni stralci dagli articoli dei quotidiani che lo ricordano:
“La sua scommessa, anche politica, è stata quella di uscire dai noiosi luoghi comuni che vogliono i genitori affranti dalle responsabilità, ammorbati dalle colpe e bisognosi di ricette per fare bellissimi figliuoli. Dei genitori di oggi ha colto il disorientamento, il timore di intromettersi nella vita dei figli in nome di libertà e indipendenza. Ma ai genitori ha pure detto di dare dare meno ai figli, che hanno troppo, troppo di tutto. Un troppo, un consumismo – proseguiva lo studioso – che fa scomparire il desiderio e apre le porte alla noia.
Ha detto di non preoccuparsi dei giochi «educativi», quelli più belli passano attraverso la fantasia della madre e le mani del padre: bastano due pezzi di legno…
Ha detto di incoraggiare i ragazzini verso il bello, che i soldi spesi per la cultura sono quelli che rendono di più, nel tempo.
E alle mamme, alle mamme, sempre di corsa e trafelate, ha detto di prendersi, ogni giorno, un tempo solo per sé, per trovare un tempo interiore. Perché la disponibilità sta nell’anima. Educare era per Giovanni Bollea una parola bellissima, satura di fascino. Era andare verso i bambini, ascoltarli, sentirli, lasciare loro il tempo per perdere tempo, ciondolare per casa, bighellonare fra le pagine dei giornalini; era la gioia del vivere insieme. Senza timore di sbagliare, perché, e di questo il grande vecchio era sicuro, «i figli perdonano sempre quando si sentono ascoltati».”
di Manuela Trinci , “l’Unità”, 7 Febbraio 2011
“Raccontava di aver sentito la sua vocazione all’età di sette anni visitando il Cottolengo a Torino. Una suora gli disse: «Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso», e lui, con la voce dell’innocenza: «Perché invece non provate a curarli?». Vicino al Cottolengo, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, era cresciuto: una concentrazione di miseria e svantaggio fisico e sociale. Poi il liceo frequentato lavorando nel pastificio ereditato dalla bisnonna in via Po, il matrimonio con l’ebrea Renata Jesi e le conseguenti persecuzioni razziali, la campagna di Russia, durante la quale era costretto a operare i compagni feriti senza anestesia. Infine l’Istituto creato a Roma, che diventa subito un riferimento scientifico e «politico» per tutta l’Europa. Negli ultimi tempi la sua attenzione aveva colto fenomeni nuovi: l’esposizione dei ragazzi alla violenza sugli schermi televisivi, l’onnipresenza alienante dei videogiochi, l’oscillare dei genitori tra lassismo e costrizione. Scuola, famiglia e società in crisi, mentre per Bollea solo la loro cooperazione può darci un mondo migliore. “
Di Piero Bianucci, “La Stampa”, 7 Febbraio 2011