Di Camus è difficile non parlarne, tra l’altro nel 2013 saranno passati cento anni dalla sua nascita,e poi appartiene a quella schiera di scrittori che si assorbono in adolescenza e rimangono tutta la vita.
Nei suoi taccuini ad un certo punto scrive:
Cosa poter aggiungere? Ben poco, tranne che l’attiva passività di cui parla Camus è una delle esperienze che si possono vivere in analisi e in terapia. Le persone che vengono a chiedere aiuto per orientarsi, chiarire , mettere ordine nel loro mondo interiore posseggono una risorsa preziosa, stanno soffrendo, provano dolore per qualcosa che stanno vivendo senza capirne il significato.
Nel darsi del tempo per fare esperienza di se stessi in relazione a qualcun altro a cui chiedono sostegno si pongono domande andando alla ricerca di una verità emotiva personale.
Il terapeuta non ha il compito di fornire risposte preconfezionate, di dare consigli. Durante una seduta una bambina, venuta da un paese lontano, mi disse che confidarsi ( quello che vedeva fare tra mamma e nonna e bisnonna) era come dividere qualcosa di prezioso ma troppo difficile da trasportare a pezzettini, sapendo che un giorno sarebbe ritornato indietro, ma intanto ci si poteva sentire più liberi e leggeri di muoversi.
Chissà se Camus intendeva questo: se al termine dell’esperienza diventiamo esperti in qualcosa è nella necessità di accettare di non sapere, la relatività di ogni esperienza e il continuo divenire del tempo.