Una fredda primavera: / sul prato la violetta era avvizzita/ due settimane o più le piante hanno esitato;/le foglioline aspettavano,/mettendo a punto il loro aspetto./Infine un verde polverio scese a gravare / sulle tue alture vaste e inconcludenti/Un giorno, in uno squarcio bianco gelido/ di sole su un pendio, è nato un vitellino (…)
E’ l’inizio di una poesia di Elizabeth Bishop la cui esistenza è stata segnata dalla perdita prematura e dall’abbandono dei genitori .Il padre muore durante il suo primo anno di vita e la madre ha un crollo psichico quando lei compie 5 anni, da quel momento in poi viene affidata ai familiari e viene trasferita più volte da un paese all’altro. Da bambina esprime il suo disagio attraverso il corpo ( eczemi, asma e altri disturbi psicosomatici), diventata adolescente trasforma, mediante l’uso delle parole, il suo dolore in poesia.
La sua vita è costellata da numerose amicizie, quasi quarantenne rivolgendosi ad uno di loro si confida : ” quando scriverai il mio epitaffio , dovrai dire che ero la persona più sola che sia mai esistita”.
Il suo destino è stato sempre segnato da una ricerca estenuante del suo sé autentico attraverso la relazione con l’altro e dal desiderio di essere conosciuta nel suo mondo interiore.
Anche la sua poesia ( come in fondo tutto il discorso femminista contemporaneo) esprime la necessità che i metodi di ascolto e di cura della sofferenza psichica prestino attenzione alla mutualità e allo scambio profondo tra le persone aiutandole a trovare la loro personale verità emotiva.